Tratto da Corrispondenza romana
La sera del 9 marzo, nella sua casa di Monza, ha reso l’anima al Signore, dopo un lunga malattia, Mario Palmaro.
La sera del 9 marzo, nella sua casa di Monza, ha reso l’anima al Signore, dopo un lunga malattia, Mario Palmaro.
Mario Palmaro aveva 46 anni ed è stato uno dei migliori studiosi e
difensori della fede cattolica nei tempi travagliati in cui viviamo. Fino
all’ultimo istante della sua vita ha combattuto la buona battaglia con gli
scritti, con le parole e soprattutto con l’esempio della sua vita cristiana.
“Corrispondenza Romana” si onora di averlo avuto tra i suoi amici più fedeli e
si associa al dolore e alle preghiere della famiglia e di tutti coloro che lo
hanno stimato ed amato. In attesa di ritornare sulla sua luminosa figura, lo
ricordiamo oggi con le sue stesse parole, tratte da un’intervista a “Il
Foglio”.
“La prima cosa che sconvolge
della malattia è che essa si abbatte su di noi senza alcun preavviso e in un
tempo che noi non decidiamo. Siamo alla mercé degli avvenimenti, e non possiamo
che accettarli. La malattia grave obbliga a rendersi conto che siamo davvero
mortali; anche se la morte è la cosa più certa del mondo, l’uomo moderno è
portato a vivere come se non dovesse morire mai.
Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita
quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel
capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia
per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare.
Guardi il Crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il
Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto
cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa
una madre premurosa. Dunque, la malattia è un tempo di grazia, ma spesso i vizi
e le miserie che ci hanno accompagnato durante la vita rimangono, o addirittura
si acuiscono. È come se l’agonia fosse già iniziata, e si combattesse il
destino della mia anima, perché nessuno è sicuro della propria salvezza.
D’altra parte, la malattia mi ha fatto anche scoprire una quantità
impressionante di persone che mi vogliono bene e che pregano per me, di
famiglie che la sera recitano il rosario con i bambini per la mia guarigione, e
non ho parole per descrivere la bellezza di questa esperienza, che è un
anticipo dell’amore di Dio nell’eternità. Il dolore più grande che provo è
l’idea di dover lasciare questo mondo che mi piace così tanto, che è così bello
anche se così tragico; dover lasciare tanti amici, i parenti; ma soprattutto di
dover lasciare mia moglie e i miei figli che sono ancora in tenera età.
Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita
che in essa continua anche se io non ci sono più. È una scena che fa male, ma
estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile,
e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che
paglia. Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri
raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per
continuare l’antico duello” (Mario Palmaro).