lunedì 10 giugno 2013

"Tolkien, Papa Francesco, Frodo e il Signore degli Anelli" in un articolo del giornalista Antonio Socci


Giovanni Paolo II è stato un grande papa condottiero della libertà. Benedetto XVI è stato il vero illuminista – ha inondato di luce razionale illuminata dalla fede – un occidente ottenebrato dall’irrazionalità nichilista.
Ma né l’uno né l’altro sono stati ascoltati da questa Europa in declino che sembra correre verso il baratro.
Così – per uno spettacolare colpo di fantasia del Conclave (e dello Spirito Santo) – è arrivato papa Francesco che parla più ai piccoli e ai semplici cristiani che alle élite, alle accademie e ai salotti. Col risultato che le élite non lo capiscono. Esce da tutti i loro schemi mentali.
Ebbene, per sintonizzarsi con questo pontificato secondo me bisogna leggere “Il Signore degli Anelli” di John R. R. Tolkien. O meglio rileggerlo attraverso l’interpretazione che ne dà un monaco benedettino, Giulio Meiattini, nel libro “La discrezione di Dio”. Interpretazione che ha, sullo sfondo, il libro di Paolo Gulisano, “Tolkien: il mito e la grazia”, opera che ha il merito di mettere a fuoco la cattolicità di Tolkien.

OCCIDENTE

Padre Meiattini nota che lo scenario  su cui si muovono le vicende narrate dallo scrittore inglese è “quello, storicamente determinato, della crisi contemporanea della civiltà occidentale”, l’epoca di Spengler, Huizinga, Jasper.
Tolkien scrisse il suo poema epico negli anni fra le due guerre mondiali, quando imperversavano i due orrendi totalitarismi, nazista e comunista, e nuove minacce planetarie – come l’arma atomica – venivano apparecchiate dalla scienza.
La Terra di mezzo “possiede alcuni tratti fondamentali del Vecchio Continente, del mondo occidentale europeo” che – in rovina – si trova a dover “fronteggiare un’immensa forza negativa, violenta e distruttrice, che da Est, dalla terra di Mordor, allarga sempre più il suo raggio d’azione”.
In questo quadro l’ultimo “baluardo a difesa dell’Occidente” – come scrive Tolkien, è rappresentato dalla fortezza di Minas Tirith, eretta degli uomini di Gondor. E’ ciò che rimane di quello che fu il magnifico regno di Numenor (nome che significa appunto “regno dell’Occidente”).
Negli anni in cui l’inglese Tolkien scriveva l’Oriente era il luogo dei totalitarismi, dell’orrore e delle ideologie assassine. Proprio perché egli non volle scrivere un poema allegorico a sfondo politico, morale o religioso, ha creato un capolavoro che contiene tutte insieme queste chiavi di lettura.
Così è attuale anche oggi che la minaccia per l’Europa è cambiata. Infatti nella nostra epoca il tenebroso oriente, la terra di Mordor e l’oscuro Sauron sono impersonati da altre forze. Ma i Sauron di tutte le epoche sono accomunati dalla stessa menzogna: la pretesa di porsi al posto di Dio.


LA SPERANZA

Per questo – come scrive Gulisano – “Il Signore degli Anelli rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della modernità”.
Anche oggi del resto sentiamo risuonare l’allarme apocalittico di Denethor, re di Gondor: “L’Occidente soccombe. Avvamperà un enorme incendio e tutto scomparirà”.
Qual è dunque – per Tolkien – la via della salvezza? Egli mette sulle labbra del grande e saggio Gandalf  l’intuizione più preziosa: “Le nostre forze sono state appena sufficienti a respingere il primo assalto. Il prossimo sarà più massiccio. Questa guerra è quindi senza speranza, come Denethor aveva intuito. La vittoria non può raggiungersi con le armi”.
Sembrerebbe un’affermazione disperata, ma poi Gandalf precisa: “Ho detto che la vittoria non si potrà raggiungere con le armi. Spero ancora nella vittoria, ma non nelle armi”.
E qui c’è la sorpresa, la grande intuizione di Tolkien, che poi è il paradosso cristiano. In chi Gandalf ripone la sua speranza? In un Eroe solitario? In una pattuglia di arditi? In una qualche stregoneria esoterica? In una nuova arma spettacolare e devastante?
No, nel giovane Frodo Baggins, uno hobbit, un ragazzino inerme, senza alcun potere, senza alcun sapere, un adolescente buono, semplice e inesperto.
E’ lui – la creatura meno tentata dall’Anello (metafora del Potere) – che si prenderà il gravoso incarico di avventurarsi nell’orrida terra del nemico e, in cima al monte Fato, gettare l’Anello nel vulcano.
Quell’Anello va distrutto perché – come dice Gandalf – “se Sauron lo riconquista, il vostro valore è vano e la sua vittoria sarà rapida e totale… se invece l’anello viene distrutto egli soccomberà”.

PER VINCERE

A prima vista viene da obiettare: perché non usare proprio l’anello di Sauron per sconfiggere lo stesso Sauron? Tolkien mostra che questa è la tentazione di tutti, ma è anche l’inganno più terribile e devastante.
“La salvezza dell’Occidente” scrive padre Meiattini “non è dunque dipendente dal potere militare o tecnologico, cose in cui Sauron non teme rivali e sulle quali edifica il suo regno, distruttivo contemporaneamente della natura e dei legami umani più veri”.
La salvezza è di natura spirituale.
“La salvezza” spiega Meiattini “dipende dal solitario cammino di un hobbit debole e inerme che porta, senza cedervi, il peso della tentazione e che alla fine distrugge la tentazione stessa, insieme all’anello che ne è l’oggetto e la fonte, vincendo non per forza propria, ma per un colpo di scena della Grazia”.
Quella di Frodo, “il Portatore dell’Anello”, è un’autentica Via Crucis, ma – osserva padre Meiattini – “chi sceglie la via della debolezza e della povertà, proprio grazie alla sua totale estraneità ai percorsi storici e mentali dell’autoaffermazione prevaricante del soggetto, sfugge alla presa dell’Occhio e dell’Ombra. Questa è l’unica mossa che Sauron non si aspetterebbe mai, l’unica che lo prenderebbe di sorpresa: che qualcuno decidesse di disfarsi dell’Anello del potere, di distruggerlo, invece di usarlo. Per lui questo sarebbe follia”.
E’ precisamente la “follia” cristiana, la “follia” di un Dio onnipotente che si fa uomo e che si lascia crocifiggere.
Conclude Meiattini: “la vera battaglia che salva l’Occidente, perciò, non è quella che si combatte sotto i bastioni di Minas Tirith, ma la battaglia del cuore, della mente e del corpo che in primo luogo Frodo sostiene per tutti”.

IL CAMMINO E LA GRAZIA

La sua “progressiva purificazione”, il sostegno della Compagnia dell’Anello, preziosa pur essendo anche i suoi membri soggetti alla caduta e al tradimento, come lui del resto (ma ce ne sono anche puri e fedeli come l’amico Sam), infine certi aiuti come quel cibo degli elfi, il “lembas”, che è una chiara metafora dell’eucarestia, segnano un cammino spirituale che porta il giovane Frodo alla salvezza del suo mondo.
Frodo vince non con l’autoaffermazione, ma proprio col sacrificio e la rinuncia. Del resto egli è il vero antieroe.
Il Novecento (quel Novecento delle ideologie che tanto hanno disprezzato il “piccolo borghese”) si è ubriacato con il culto dell’eroe, del superuomo, del Capo, delle forze storiche (la Classe, la Razza), delle entità divinizzate a cui sacrificare i popoli (il Mercato, lo Stato, il Partito, la Rivoluzione, la Scienza). Da qui è venuta e viene la minaccia e la rovina per la loro “pretesa divina”.
Invece la salvezza viene dal piccolo e debole uomo singolo, dalla sua silenziosa offerta di sé. Secondo Meiattini “è presente nell’opera di Tolkien una teologia della sostituzione vicaria che lo avvicina ad altri grandi romanzieri cattolici come Bernanos, Mauriac, Gertrude von le Fort”.
Vorrei aggiungere che lo avvicina ai santi del Novecento (cito padre Kolbe e padre Pio per tutti). Ma Frodo, il vero eroe del nostro tempo, è anzitutto il simbolo del bistrattato uomo semplice, del singolo, il fante delle due guerre mondiali, il padre di famiglia, l’uomo comune, il piccolo borghese, l’adolescente.
E’ soprattutto a lui che parla papa Francesco chiamandolo a salvare il mondo. Non con le proprie forze, ma con la Grazia.
Dice Meiattini: “è la grazia infatti la protagonista invisibile, ma palpabile del Signore degli Anelli”. E’ solo la Grazia che crea eroi veri.

Antonio Socci