sabato 15 marzo 2014

Eugenio CORTI entra nella storia - di Mario Palmaro

Di seguito l'ultimo articolo scritto dal nostro Mario Palmaro sul suo e nostro  Il Timone (ANNO XVI - Marzo 2014).  A-DIO Eugenio e Mario.




Con la sua morte, Corti va ad occupare il posto che gli spetta nella letteratura italiana. E' la giusta consacrazione del più grande scrittore cattolico del '900. Uomo di fede granitica, è stato un campione dell'apologetica. 

Quando Eugenio Corti  la sera del 4 febbraio è morto serenamente nella sua bella casa di Besana Brianza, forse avrà rivisto in pochi istanti la sua vita, un lungo nastro lucente dispiegatosi per 93 anni. E si sarà come per magia ritrovato nel freddo spaventoso della steppa russa, durante quella ritirata del 1943 che fu la tomba di decine di migliaia di soldati italiani. E avrà ricordato, il vecchio Eugenio, quel momento inevitabile in cui pensi che sia finita: ti rendi conto che le bombe e i micidiali Katiuscia dell'esercito sovietico, oppure il gelo, o la mancanza di cibo, ti faranno morire lì, solo un altro corpo esanime fra i tanti che vedi intorno a te irrigiditi nella morsa del gelo.

Corti e la fede
Poteva finire così: il giovane sottotenente Corti morto in un luogo imprecisato della steppa, e di conseguenza: niente racconto della ritirata di Russia "I più non ritornano" (1947); niente "Gli ultimi soldati del Re", racconto della sua militanza nell'esercito che risalì l'Italia per restare fedele alla monarchia; niente "Processo e morte di Stalin" (1961); niente saga di quella invenzione cortiana che sono i "racconti per immagini": "La terra dell'indio" (1998) sulle Reductiones del Sudamerica. "L'Isola del Paradiso" (2000) sulla vicenda degli ammutinati del Bounty, e "Catone l'antico" (2005). Ma, soprattutto, niente "Il Cavallo rosso": il capolavoro assoluto, il romanzo di una vita, la consacrazione del pubblico - 29 edizioni - e della critica, con la Francia dei magazine letterari imazzita per Eugenio Corti e il suo "Le cheval rouge",  che lo fa paragonare a Tolstoj, a Pasternak, a Solzenicyn, a Tolkien. Leggendo questo elenco di nomi vengono i brividi pensando che noi del Timone abbiamo vissuto accanto a lui, abbiamo ascoltatola sua voce, siamo stati ospitati con grande semplicità nella sua casa, accanto all'inseparabile e discreta moglie Vanda dei Conti di Marsciano. Se questa è la nazionale degli apologeti, Corti ne è stato il fuoriclasse indiscusso. 
Dunque poteva non tornare dal fronte e invece la Provvidenza aveva altri progetti per lui. E per tutti noi. Afferrò il giovane sottotenente Eugenio Corti, giunto a un passo dalla morte, e lo riportò a casa sano e salvo. Regalandoci non solo un grande cristiano, ma uno scrittore di livello mondiale. 
Per parte sua, questo uomo aveva un segreto che ha fatto da filo rosso a tutta la sua vita, e che lo ha tenuto in piedi in quei terribili trentotto giorni di inferno ghiacciato: la fede. Corti promise a Dio che, se ne fosse uscito vivo, avrebbe dedicato l'intera esistenza alla buona battaglia. E il voto fu mantenuto fino alla sera del 4 febbraio 2014. Quella di Corti era una fede robusta, solida, autentica, totalizzante. La sua persona era "riempita"  dall'adesione alla Chiesa cattolica e a quanto essa ci insegna. Una fede imparata dai genitori, dal parroco, andando a Messa, pregando, studiando il catechismo, abituandosi a leggere ogni fatto della giornata alla luce della fede. Se chiedevi a Corti "ma che cos'è la fede?", a differenza di tani cattolici contemporanei, ti rispondeva senza tentennamenti: "La  fede è l'adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l'autorità di Dio stesso che ce le rivela. La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della Chiesa". Questa chiarezza non è un dettaglio di poco conto, ma è il nucleo intorno al quale ruota l'intera vita di questo scrittore. Due note firme del Il Timone - Paola Scaglione e Andrea Sciffo - hanno contribuito a far emergere negli anni la grandezza di questa poetica e di questo autore.

Corti e il Cavallo Rosso
Il romanzo di Corti è la realizzazione perfettamente riuscita in forma artistica di questa visione cattolica. Un libro nel quale la precisione maniacale per i fatti storici, la credibilità dei personaggi e della trama si intrecciano con disarmante naturalezza con una costante visione soprannaturale. Quando ne Il Cavallo Rosso si muore, non si diventa carne morta, ma si viene istantaneamente e letteralmente afferrati dall'angelo custode che ti porta in Cielo. e si cominciano a rivedere i volti delle anime che ci hanno preceduto. Il naturale e il soprannaturale coesistono, e lo scrittore - che è il testimone incaricato di raccontare e di spiegare il mondo ai lettori - te lo descrive con certezza incrollabile. Nel secolo in cui i più grandi romanzieri certificano che oltre l'uomo di carne c'è solo il nulla, Corti compie un atto di coraggio inaudito: ci dice che la vera vita è quella che attende tutti, con il suo snodo ineluttabile di un giudizio basato sulle nostre azioni. Così, il cumulo enorme di male che il romanzo racconta, le figure malvagie che lo popolano, i molti umili buoni cristiani vittime di questa immane ingiustizia: tutto trova senso nel fatto che l'esito della storia è soprannaturale.

Corti, la buona battaglia e una confidenza.
La vita del cattolico è combattimento, è militanza. Corti non pensò mai che fare lo scrittore significasse estraniarsi dalla lotta. Non fu mai disertore. Innanzitutto nei suoi doveri familiari: nato il 21 gennaio del 1921, primo di dieci fratelli, Corti fece per anni l'imprenditore per proseguire l'opera di suo padre Mario, e Dio solo sa con quale rinuncia rispetto al fuoco della vocazione narrativa che già lo divorava. Ma soprattutto, fu tetragono difensore di principi irrinunciabili: quando nel 1970 l'Italia introdusse il divorzio, Corti si schierò senza esitazione con Gabrio Lombardi, Emanuele Samek  Lodovici, Sergio Cotta, Augusto Del Noce, Enrico Medi, Giorgio La Pira e altri che si batterono per riaffermare l'indissolubilità naturale di ogni matrimonio. E così ebbe a scontrarsi con Giuseppe Lazzati (che pure Corti ammirava) e con i cattolici che votarono a favore del divorzio, come Sabino Acquaviva, Paolo Prodi, Tiziano Treu, Giuseppe Alberigo, Pietro Scoppola, Pierre Carniti, Raniero La Valle, Mario Pastore, Guglielmo Zucconi, Adriana Zarri, Carlo Carretto, Padre David Maria Turoldo. Costoro rimasero tutti sulla cresta dell'onda cattolica, riveriti e incensati fino ai nostri giorni. Corti e gli altri, sconfitti, scomparvero. 
Qualche anno dopo, di fronte alla prospettiva di impegnarsi nello stesso modo per il referendum del 1981 sull'aborto, lo scrittore decise di restarsene nella sua casa di Besana. Io - mi confidò sconsolato - aveva posto una sola condizione per battermi: tappezzare l'Italia di manifesti che mostrassero le foto raccapriccianti di che cosa succede a un feto abortito. Per convincere la gente che l'aborto è sbagliato, bisogna mostrare alla gente che cos'è l'aborto. Mi risposero che questo era impossibile e che sarebbero stati usati messaggi positivi e foto di bambini sorridenti. Capii in quel momento che la battaglia era persa in partenza, e mi ritirai in buon ordine." E così fu.

Corti e la Chiesa
Insomma, Corti fu un uomo dalla schiena dritta. Fu un anticomunista e un controrivoluzionario. Che non mancò di denunciare la drammatica crisi in cui la Chiesa stava scivolando da mezzo secolo. Lo fece con il suo saggio "Il fumo nel tempio" (1966), che alludeva alle terribili parole di Paolo VI e che fotografa in maniera lucida e impietosa quel capovolgimento in atto in base al quale più un cattolico restava fedele alla dottrina, e continuava a fare e  pensare ciò che aveva sempre fatto e pensato, e più veniva messo in un angolo; e rimpiazzato da personaggi che un tempo sarebbero stati sospettati di eresia. 
Questa fu, diciamocelo, la sorte dello stesso Corti: sempre più amato dai lettori di tutto il mondo, dai giovani, da alcuni critici liberi. Dimenticato da chi - cattolico e non - predilige il compromesso e la resa.
Per fortuna adesso il dottor Corti, con la sua barba curata alla Sean Connery, se la ride tutto contento godendosi il sole del Paradiso. E il gelo della steppa russa è, ormai, solo un pallido ricordo.



lunedì 10 marzo 2014

E' morto Mario Palmaro, filosofo del diritto, Presidente di Comitato Verità e Vita

Tratto da Corrispondenza romana


La sera del 9 marzo, nella sua casa di Monza, ha reso l’anima al Signore, dopo un lunga malattia, Mario Palmaro.
Mario Palmaro aveva 46 anni ed è stato uno dei migliori studiosi e difensori della fede cattolica nei tempi travagliati in cui viviamo. Fino all’ultimo istante della sua vita ha combattuto la buona battaglia con gli scritti, con le parole e soprattutto con l’esempio della sua vita cristiana. “Corrispondenza Romana” si onora di averlo avuto tra i suoi amici più fedeli e si associa al dolore e alle preghiere della famiglia e di tutti coloro che lo hanno stimato ed amato. In attesa di ritornare sulla sua luminosa figura, lo ricordiamo oggi con le sue stesse parole, tratte da un’intervista a “Il Foglio”.
La prima cosa che sconvolge della malattia è che essa si abbatte su di noi senza alcun preavviso e in un tempo che noi non decidiamo. Siamo alla mercé degli avvenimenti, e non possiamo che accettarli. La malattia grave obbliga a rendersi conto che siamo davvero mortali; anche se la morte è la cosa più certa del mondo, l’uomo moderno è portato a vivere come se non dovesse morire mai.
Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare. Guardi il Crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa. Dunque, la malattia è un tempo di grazia, ma spesso i vizi e le miserie che ci hanno accompagnato durante la vita rimangono, o addirittura si acuiscono. È come se l’agonia fosse già iniziata, e si combattesse il destino della mia anima, perché nessuno è sicuro della propria salvezza.
D’altra parte, la malattia mi ha fatto anche scoprire una quantità impressionante di persone che mi vogliono bene e che pregano per me, di famiglie che la sera recitano il rosario con i bambini per la mia guarigione, e non ho parole per descrivere la bellezza di questa esperienza, che è un anticipo dell’amore di Dio nell’eternità. Il dolore più grande che provo è l’idea di dover lasciare questo mondo che mi piace così tanto, che è così bello anche se così tragico; dover lasciare tanti amici, i parenti; ma soprattutto di dover lasciare mia moglie e i miei figli che sono ancora in tenera età.
Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita che in essa continua anche se io non ci sono più. È una scena che fa male, ma estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile, e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che paglia. Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per continuare l’antico duello” (Mario Palmaro).


"Il Timone" e Mario Palmaro